Are you gonna be the one who saves me?
08 marzo, 2007
Fight Club
Prima regola del Fight Club: non si parla del Fight Club.
Seconda regola del Fight Club: non dovete parlare mai del Fight Club.
Terza regola del Fight Club: se qualcuno si accascia, è spompato, grida basta, fine del combattimento.
Quarta regola del Fight Club: si combatte solo due per volta.
Quinta regola del Fight Club: un combattimento alla volta.
Sesta regola del Fight Club: niente camicia, niente scarpe.
Settima regola del Fight Club: i combattimenti durano tutto il tempo necessario.
Ottava regola del Fight Club: se è la vostra prima sera al Fight Club, dovete combattere.

Cambiano le persone e le cose, questa volta è toccato al blog!

http://fightclub07.blogspot.com/

Ciao! ;)
 
posted by Stefano at 23:06 | Permalink | 0 comments
05 febbraio, 2007
Redivivo...
...Ma non troppo, dopo una Domenica passata a scrivere articoli, a lavorare nonostante l'obbligo formale alla pausa quindicinale. Necessaria a trasformare un contratto a tempo determinato in un altro a tempo determinato.
Mi ritrovo a quest'ora un po' perso davanti al monitor, cercando di liberarmi senza successo di questa vecchia abitudine, nella quale dopo una giornata passata a leggere (testi universitari preprando un esame per esempio) sentivo il bisogno di mettere le cuffie e con qualche canzone in testa fuggire dal silenzio notturno, inquietato da silenziosi pensieri che si scontrano tra di loro e fanno riflettere.
Oggi non ho letto moltissimo, ho principalmente "prodotto", ma come sempre il sottile equilibrio della quotidianità barcolla se lo sguardo volge un po' più in là del solito.
Avanti o indietro che sia.
Mi ritrovo ancora una volta con qualcosa di stretto addosso, che ovviamente si tratta della solita quotidianità.
E mi ritrovo ancora una volta a chiedermi se sia davvero il caso di guardare le stelle, sospirare, e pensare che domani sarà un giorno migliore.

Il pensiero va a mete lontane, luoghi esotici nuovi e "inediti". Un voucher Alitalia a pochi centimetri dalla mano sinistra, Internet nella mano destra. Praticamente non manca nulla per riempire uno zaino in gran fretta e partire senza dire niente a nessuno, con una macchina fotografica al collo, l'iPod nelle orecchie e la sola speranza di trovare la forza per tornare.
È tutto come una scatolone di cartone, di quelli che da piccoli si usavano per giocare. Ci infilavamo lì dentro, aprivamo a fatica un buco con delle forbici e spiavamo il mondo là fuori. Poco più di un salotto o una camera dei giochi.
Anche oggi con il mouse al posto delle forbici mi ritaglio dei piccoli buchi nella quotidianità, ma se prima anestetizzavo l'opprimente senso di chisura con la necessità di prendere la laurea, oggi un contratto per una TV privata come co-autore mi sembra quasi una scocciatura. Un ennesimo "lacciuolo" che da un lato mi trattiene e dall'altro m'inganna, rinviando solo di qualche mese la cannonata.
Mi immagino un po' come in Jules Verne, con il suo cannone che può sparare fin sulla luna, e un po' come La Donna Cannone che vola via e non torna più.

Questa notte non dormo perché so che non accadrà. C'è chi ha paura del buio, dei luoghi troppo chiusi o troppo aperti. Forse io ho solo paura di non farcela a trovare un posto che mi appartiene. Una mattonella quadrata, di quelle che ci salti dentro alla Jack Nicholson in "qualcosa è cambiato", e non la solita riga che ti fa stare a metà tra una cosa e l'altra, che ti costringe a guardarti i piedi scordando che davanti c'è tutta una strada da percorrere, saltando o camminando poco importa.

E magari riuscire a guardare negli occhi le persone, scoprendo che una di queste potrebbe stare con te tutta una vita.
Ma, con la solita frase fatta, "questa è un'altra storia".
 
posted by Stefano at 02:32 | Permalink | 2 comments
21 dicembre, 2006
Doctor Robert
Finally, la laurea è arrivata. Sì praticamente è arrivata perché non ho avuto neanche il tempo di sedermi e sparare due cazzate che già toccava a quello dopo.
Tempo una scarsa mezz'ora e la commissione si è ritirata per "deliberare".

Dopodiché "Stefano Pepe, con l'autorità conferitami dal Magnifico Rettore di questo Ateneo la nomino dottore in Marketing, pubblicità e comunicazione d'impresa con il voto di 110. Congratulazioni".
Battito di mani e in un bel film ci sarebbero stati i titoli di coda.
La storia in realtà non è finita perché ci sono stati momenti dedicati al festeggiamento, allo scherzo, tutti passati così velocemente che ho temuto costantemente di dimenticarli in un prossimo futuro.
Stasera il carnevale studentesco ha completato la sua seduta di laurea, quindi la maggior parte dei miei amici/colleghi ha completato gli studi, laureandosi e scoprendosi disoccupati.
Eh sì perché praticamente un po' tutti i laureati, appena ritirato l'ambito titolo, vanno ad ingrossare le fila dei disoccupati di tutta Italia.
In realtà non è così, loro continuano per prendere una laurea specialistica. E un po' li invidio, così ridenti e fancazzisti, sono uguali a quando li ho conosciuti, solo quel tanto più maturi per non parlare a sproposito e capire battute un po' più ricercate. Il resto è lì come sempre, un gruppo di spensierati ragazzi così felici di correre tra casa e l'università, pronti a bere quantità industriali di alcol e a scherzare del più e del meno.
Un gruppo di sognatori ad occhi aperti, che forse non ha ancora ben presente cosa li aspetta dall'altra parte della barricata, quando fucile in mano ed elmetto in testa dovranno combattere in prima linea. One shot, one kill.
E ti ritrovi, dopo aver salutato tutti perché domattina hai un'importante riunione professionale, a guardare le ombre che proietti dai lampioni, a sentire il freddo pungente che non lascia scampo. A sentire come il freddo sia più freddo, la notte più buia. La stanchezza più pesante.
Perché alla fine non hai una meta chiara come una laurea davanti ai tuoi occhi, ma un nebuloso futuro fatto di un lavoro, possibilmente attinente ai tuoi studi, e un mezzo fallimento in tasca.
Come ho scritto qualche tempo fa speravo di laurearmi con la donna della mia vita al mio fianco. Lo so è stupidamente romantico, ma l'università è un ambiente così semplice e spensierato che una stretta di mano e uno scambio di numeri di telefono è praticamente normale, una pura formalità. Ho conosciuto tante bellissime ragazze, e future magnifiche donne.
Ma sono rimasto solo, come vuole la mia tradizione interiore.
Non cambio mai.

Poco male, il lavoro va bene e, come dice Robert Spritzel (Michael Caine) in The Weather Man qualcosa bisogna lasciarlo per strada. E un grande successo ha il suo prezzo.
Nel mio caso prendere una laurea con il massimo dei voti mentre lavoravo è stato un grandissimo traguardo, che forse pochi sono riusciti ad eguagliare.
Ma da grande insoddisfatto quale sono mi chiedo: ne è valsa davvero la pena?
O comunque ne è valsa la pena al punto da rinunciare a guardarmi quel tanto di più intorno, e trovare una bella donna da portare via con me?

Chissà, strizzando l'occhio ai fatalisti, tutto ha un motivo, anche questa inutile fuga dalla solitudine.
Intanto devo annunciare che mi separo definitivamente da Wonderwall.
Questo sarà l'ultimo messaggio lasciato qui, al massimo il penultimo quando deciderò di aprire un "professional blog" e annunciarlo qui.
Alla fine questo spazio appartiene ad aspetti della mia vita che non mi appartegono più e, quasi come un cambio di stagione o un cambio di crotalica pelle, abbandono britcop e wonderwall alle polveri virtuali del passato.
Sarà bello rileggere questi momenti scritti all'insegna dell'alcol e della voglia di farcela. E sarà ancora più bello ricordare come ce l'ho fatta, con le mie scorribande all'art cafè, le mie serate alcoliche, i miei viaggi tra un esame e l'altro e i vari incontri inconcludenti con le mie amate colleghe.
D'altronde tutto ha un inizio e una fine, fa parte del nostro essere ed esistere umano.

Da oggi in poi Doctor Robert "will do everything that he can".
Doctor Robert.
 
posted by Stefano at 01:52 | Permalink | 0 comments
14 dicembre, 2006
Bigger Stronger
Sembra solo ieri, eppure sono passati 15 giorni dall'ultimo messaggio lasciato qui.
Di cose ne sono accadute parecchie, tutte così in fretta che ho tardato a scriverle, finendo per dimenticarle o perdere l'attimo fuggente per fissarle in fiumi di parole che si inseguono.
Partirei dal Motorshow dove, insieme ad una nutrita task force, abbiamo girato circa 6 ore di filmati dedicati a macchine e standiste, durante il giorno 5 dedicato ai giornalisti.
La sera stessa sono tornato a Roma con le varie cassette, pronto per la levataccia del giorno dopo alle 5 e 30, visto che il turno di montaggio l'ho iniziato alle 6 e 30 di mattina.
Quello stesso giorno ho completato i circa 80 minuti di montato, chiudendo la sessione di montaggio alle 2 e 30 del giorno successivo, dopo venti ore di montaggio ininterrotto. La mattina dopo il DVD è partito per la stampa, pronto per essere successivamente distribuito con la rivista.

Questo per dire che, dopotutto, non ho avuto praticamente tempo di pensare a quello che mi sta per piombare sulla testa.
Non contento, l'8 dicembre alle 15 e 30 sono partito per Milano, concedendomi un weekend di svago e "lavoro leggero" dedicati sempre alla mia rivista e a rivedere vecchi amici.
Sono tornato giusto lunedì mattina, trovandomi a dover correre in redazione per chiudere alcuni articoli, organizzare una sorta di cena o quasi-festa per amici intimi e parenti il giorno del 15, comprare camicia e cravatta da indossare e infine organizzare la festa ufficiale, che si terrà tra il 20 e il 22.
Insomma, correndo in giro mi sono praticamente scordato che domani pomeriggio, verso le 15, dovrò discutere la mia tesi e prendere la mia laurea in scienze della comunicazione.

Ma questo non vuole essere il solito diario dei racconti noiosi, quello di cui voglio parlare è come effettivamente una laurea sia considerata il classico "rintocco" dell'ennesimo sessantesimo minuto nel nostro orologio di vita.
Si comincia da piccolissimi, con uno schiaffetto a testa ingiù sul culetto, due vagiti e già si fanno i preparativi per il battesimo. Poi si comincia a camminare, a parlare, ad andare all'asilo e infine a scuola.
Il primo rintocco diciamo che avviene il primo giorno di scuola, quando orde di bambini e mamme in lacrime si separano come se fosse per sempre, strattonati dalla tiranna campanella intenta a ricordare che è ora di entrare a scuola.
Il secondo rintocco sono gli esami di quinta elementare, con la tesina e i maestri che tutti contenti ci scaricano alla scuola media.
L'ingresso alla scuola media è già qualcosa di più autonomo e facilmente ricordabile, io personalmente ho cercato di seguire alcuni amici delle elementari, cercando di proseguire la saga dei casinari in classe. Alle medie dopotutto si studia e non c'è mamma a farci i compiti, quindi i rintocchi arrivano in corrispondenza dei primi votacci o le prime note. Ne ho raccolti in quantità industriali.
Ecco devo dire che un momento importante, al dila' degli esami alle medie (fatti in un angusto corridoio, sorvegliato da professori e presidi) è la scelta di quello che si fa dopo.
Il primo giorno di liceo è l'ennesimo rintocco sul grande orologio della vita, sia perché è una scelta importante, un bivio che una volta scelto non permette di tornare indietro. E questa scelta, a poco più di tredici anni, spesso viene fatta senza una reale cognizione delle proprie capacità. Basti pensare a quanti ingegneri hanno fatto il classico, e quanti letterati hanno fatto lo scientifico.
Un altro rintocco proviene questa volta dalla prima ragazza importante, quella che porti a casa e che nascondi sotto le coperte quando mamma ti sorprende a casa con lei. E che magari la sera dopo siede imbarazzata alla tavola della tua famiglia. La prima vera fidanzata.
Poi arriva la maturità. La cosa strana è che più vado avanti, più si accorciano i ricordi, come se i momenti che dividono queste tappe fossero sempre di meno, quando in realtà i cinque anni del liceo sono molto più lunghi dei tre anni (nel mio caso quattro!) di scuole medie.
Alla maturità si becca il primo voto importante, che determina l'accesso alle università più prestigiose e stila una graduatoria su chi è più bravo o, generalizzando, su chi ha il cervello più fino.
Pochi attimi e ci si trova proiettati con il quadernino sottobraccio all'università, affascinati da lunghi corridoi e infiniti fiumi di gente più grande di te. Una sensazione vecchia di almeno 5 anni (quando si comincia il liceo) ma vissuta con gli occhi di un quasi adulto o quantomeno maggiorenne. La tanto agognata indipendenza all'università molto facilmente si ritorce contro, abbassando i voti e la stima dei gentori verso la tua nuova impresa studentesca.
In quanti hanno sbattuto il muso sull'università? Tanti, me compreso.
Al punto che pochi mesi dopo avevo già deciso di smettere ma, per non deludere i miei familiari, mi sono trascinato per un anno e mezzo.
Il vero rintocco è arrivato con la mia prima vera storia importante, quando arrivato Settembre (un anno dopo la mia immatricolazione) mi sono trovato a stare benissimo con una ragazza. E mi sono detto "sticazzi degli esami, quando ne trovo un'altra così?".
Fatto sta che a gennaio di quell'anno ho cominciato il servizio di leva, facendo l'obiettore di coscenza per un ministero. Esperienza molto costruttiva sul piano personale, ma devastante dal punto di vista sociale. Ho perso la mia ragazza, ho perso tanti amici. E ho perso anche un po' la voglia di divertirmi e di cazzeggiare in compagnia. Questo rintocco lo ricordo un po' sinistro, stonato. Una nota di transizione tra il mondo adolescente e quello adulto.
Guardandomi indietro ho quindi fatto una scommessa: prendere una laurea triennale lavorando. E ho fatto un colloquio a botta secca alla Lumsa.
Avevo una faraonica (vabbè non esageriamo, ma quasi) offerta dalla rivista per cui lavoravo, che comprendeva una bella casetta in provincia di Cosenza, un posto fisso in redazione e uno stipendio più che decoroso per un disoccupato diplomato che aveva fallito all'università. Il colloquio universitario è andato bene, ho salutato la redazione, e ho cominciato la più grande e bella avventura della mia (breve e noiosa) vita.
Un'avventura che è nata per scommessa, perché sapevo che potevo fregare il sistema che mi aveva fregato. Sapevo che la laurea era alla mia portata, sarebbe bastato rinunciare a qualche soldo e qualche notte brava.
Beh eccomi qui, il rintocco questa volta non suona solo nelle mie orecchie.
Accompagna un po' tutti qui a casa. Occhi luccicanti d'orgoglio accompagneranno il mio movimento verso il piccolo leggìo dove, in pochi brucianti attimi, si consumeranno tre anni di studi e di rinunce. Che ho pagato nelle notti insonni passate a scrivere articoli o domandarmi se avevo fatto bene.
Notti passate a valutare successive e più allettanti proposte di lavoro, tutte rifiutate in nome della mia scommessa.
Questa laurea, che renderà orgogliosi amici e parenti, la sento mia.
Anche se non mi rendo ancora conto che quello di oggi è stato l'ultimo tramonto da diplomato, e domani sarà l'alba di un giorno dedicato al cambiamento. Tutto con una chiacchierata e tre anni di sacrifici che rifarei perché, dopotutto, non hanno mai pesato veramente.

I rintocchi non finiranno, e giusto ieri parlando con una mia amica è uscito il discorso "hey, manco mi sono laureata che già qua stanno pensando al matrimonio!!".
Già il matrimonio.
Praticamente una volta laureato già è pronto un altro giro di lancette, uno che porta al primo importante contratto di lavoro, un altro che porta al primo contratto d'affitto.
Poi c'è il bacio all'altare, qualche manciata di riso.
E uno schiaffetto sul culetto, questa volta dei figli.
E si ricomincia, questa volta dall'altra parte della barricata. A decidere se sarà scientifico o letterato, a penare se non riesce a fare gli esami e se tarda la notte quando esce tra amici.
Una storia infinita, una grande corsa scandita dal tempo e dai rintocchi che un grande orologio interno fa ad ogni giro di lancette.

Perché ho voluto levare questi 60 minuti al mio ultimo sonno da diplomato? La risposta proviene dai ricordi di ogn'uno di noi: quante volte l'attesa di un appuntamento, di un bacio, di una telefonata ha avuto un valore emozionale più alto della telefonata o dell'appuntamento stesso?
Sto vivendo l'apice dell'attesa, sono in cima a questa rampa di scale e, arrancando, è bello guardare un attimo indietro per godersi il panorama e scoprire ancora una volta quando passo dopo passo dietro di sè ci sia qualcosa di grande, di importante.
È tempo di dormire, adagiandosi su questo morbido ammezzato, pronti a riprendere la marcia su questa lunghissima scalinata.
Sempre più in alto, sempre più veloci.
 
posted by Stefano at 23:58 | Permalink | 0 comments
01 dicembre, 2006
D-Day
Sono sparito, ma la giustificazione la trovo valida.
Innanzitutto la tesi, l'ho finita, l'ho stampata e l'ho consegnata.
Il 15 la discuterò, e finalmente mi sarò laureato!
Ancora stento a crederci, ma questo è niente rispetto al resto.
Con Nuvolari va bene, sarò al Motorshow per lavoro, e ho cose molto importanti da portare a termine. È la prova del nove, a fine Gennaio scade il contratto di stage e poi.. chissà!
Tornerò quando le acque si calmeranno un po', o almeno quel tanto che basta da non farmi venire ribrezzo di tastiera e monitor (visto che adesso scrivo quasi più che per la tesi).
Buon Dicembre a tutti perché se l'anno scorso Natale è arrivato in fretta, quest'anno mi è proprio piombato sulla testa!
 
posted by Stefano at 22:28 | Permalink | 0 comments
12 novembre, 2006
Homesick
Momento acustico.
Sulle vibranti note dei King of Convenience, così familiari e amiche in queste rapide giornate invernali, spese tra un tasto e l'altro della mia tastiera che macina tesi e articoli.
Fuori il sole è un po' falso, ti fa credere che faccia caldo. Ma non è così, anzi le mattine che affronto tra casa e redazione sono tutt'altro che tiepide e morbide sul viso.
Mi fanno tornare a quando, solo qualche mese fa, mi alzavo quelle rare mattine primaverili per andare a fare un esame, riempire una casella sotto l'altra. Nome dell'esame, data, voto firma. Avanti il prossimo. E un sole così morbido, che ti aspettava fin quasi l'ora di cena, e non l'ho mai deluso. Fatto l'esame potevo anche concedermi qualche ora a non dover pensare ad altro che un cielo blu e le nuvole bianche, no?
Insomma l'inverno non è la mia stagione preferita, e l'ultimo passato in solitudine... beh risale a due anni fa. Ma era diverso, c'era l'università, gli amici, la voglia di volare lassù ma senza guardare lontano.
Ultimamente faccio fatica a sopportarle queste mattine invernali. Così piene di vuoti impegni, tutti così privi di significato. Di un motivo reale per farli.
Tanti devo, troppi pochi voglio. Sul lavoro. E fuori.
Ma sì diciamolo: a lavoro va molto bene, è inutile nascondersi dietro a un dito. Fare articoli sulle macchine mi viene facile, le parole scorrono leggere, e in cinquanta righe ho raccontato il volante che ho avuto tra le mani, i pedali sotto i piedi. Mi hanno anche rinnovato il contratto, passerò altri tre mesi a guidare macchine per lavoro, ogni settimana una diversa. Il sogno di tutti i miei coetanei.
Tranne me, forse. Lo prendo semplicemente come un lavoro, e forse questo è il segreto del mio successo. Ma successo per chi?
Per gli altri che sono contenti per me, perché probabilmente se pulissi cessi dalla mattina alla sera la penserei ugualmente. È sempre, e soltanto, un lavoro.

Sono sfaticato? Chi mi conosce sa bene che non è così. Presentarsi alla seduta di laurea con 104, una tesi sperimentale finita in 15 giorni (ma preparata in tre mesi), una media superiore al 28 e tutti gli esami fatti senza essere minimamente fuoricorso significa che mi sono dato da fare. In mezzo ci sono tre riviste, qualche sito. E abbastanza soldi per pagarmi gli studi (università privata, la retta non te la regalano) e la mia fiammante CBR600RR.
Una sera, per pura curiosità, mi sono fermato a contare quanto guadagnerei se scrivessi articoli a tempo pieno (e non quattro giorni al mese). Probabilmente mi ci pagherei molto di più che una laurea e una moto, ma dopotutto... non mi interessa veramente.
Sì forse sono sfaticato. O forse dei soldi non me ne frega un cazzo, infatti sono squattrinato e ho decine di crediti per lavoro con varia gente.

Ma non voglio parlare del fatto che sono sfaticato, delle solite cazzate sul lavoro, dei soldi (che servono sempre, purtroppo).
O del mio sofferente rapporto con la scrittura. Che odio e amo allo stesso tempo, un amore malato, che si esprime al meglio quando sto male. Più sto male, meglio scrivo. E più la gente mi fa i complimenti, specialmente sul lavoro. E troppo spesso dimentico di ringraziare, passando per l'ennesimo sociopatico pieno di sé.

Giovedì scorso ho finito la tesi, e con tutti i fiocchetti di rito dovrebbe superare le 120 pagine. Salto l'oggetto della mia tesi (tecnico, palloso e privo di significati artistici, percui inutile), e a fatica prendo le redini del discorso.
Forse è l'ora, forse è questa solida stanchezza di stare davanti al monitor.
È finita. E contrariamente ai bambini che corrono il 10 giugno fuori da scuola, quando la campanella suona l'inizio delle vacanze, anziché pensare agli amici del mare, mi guardo indietro.
E scopro perché ho rifiutato offerte di lavoro faraoniche per un ragazzino di 24 anni e irripetibili per uno studentello di 25. Il motivo è la solitudine.
Che ti insegue come un'ombra, ma finché hai nuova gente amica con cui parlare sei salvo. Anziché andare a Milano, fare il giornalista a tempo pieno. Perdere di vista il mio piccolo mondo antico, fatto di bar, amici, discoteche e amori nati e morti tra un tramonto e l'altro.
Ho studiato, ho fatto esami, ho combattuto con lo stress per due motivi: avere un luogo di miei coetanei con cui scherzare, fare finta di stare al liceo, giocare ad essere adulti in erba; e poi fare l'adulto quasi vero, lavorando, rispettando le scadenze e allevando le mie abilità professionali.
Oggi tutto questo è servito a qualcosa, o forse no.
È finita l'università, sono finiti i giochi, mi sono fatto aspettare ma non ho più scuse, da domattina saremo io e lei. La solitudine, che mi porto nello zaino tutte le mattine che vado in redazione a lavorare, e mi fa vedere quanto la vita d'azienda sia una gabbia di esseri soli, che anziché vivere nella calda e rassicurante socialità di un ateneo, si ingobbiscono sulle loro scrivanie, si ancorano grettamente al posto di lavoro conquistato, e tengono la vita vera fuori da tornelli e pause pranzo.
Solo che loro hanno una donna, una casa, dei figli e a volte un cane e una suocera da tenere a bada.
Non è invidia, è timore di finire come loro.
So che non accadrà, che fuggirò in tempo, e che ci saranno gli amici a salvarmi da tutto questo. Ma chi passerebbe otto ore al giorno in gabbia, attendendo le 18 per scappare e prendersi una boccata di traffico, per poi timbrare il cartellino a casa?

Sì, forse il lavoro d'ufficio non fa per me, ma improvvisamente ho scoperto che casa mia non è qui, e la mia vita non è tra il pianerottolo e il mio letto.
È tra i miei coetanei, a fare casino, a scherzare sul prossimo esame. A sognare cosa farò da grande, a sperare che due occhi verdi si soffermino quell'istante in più per accorgersi di me. E invece è finita, la vita non può più aspettare.

E se crescere significa rinunciare a qualcosa, io so già cosa lascerò tra le mura della Lumsa.
E chissà quel giorno diventerò un grande scrittore.
Homesick, Cause I no longer know, What home is.
 
posted by Stefano at 03:58 | Permalink | 0 comments