Are you gonna be the one who saves me?
28 ottobre, 2006
High Speed
Dove abbia trovato la voglia di scrivere questo blog proprio non lo so.
La mia media giornaliera sfiora le 15 pagine di tesi, un po' scritte, un po' copiate qua e là.
Nel frattempo tutto scorre troppo veloce, dentro una bolla di vetro da cui il sole sembra correre impazzito nello scandire il giorno e la notte. Sul lavoro la situazione è completamente folle, quasi ingestibile. Martedì mi scade il contratto, ma già mi hanno contattato e proposto una bozza di rinnovo, dove lavorerò anche in televisione, non so a quale livello ma, ufficiosamente, ho fatto carriera. Continuo a stringere nuove mani, a ricevere nuovi complimenti, ma sono echi lontani fuori da questa palla impazzita che mi ha catturato, sovrastati dal rombo del motore che mi fa correre a velocità folli verso il traguardo più importante che mi sono imposto, la tesi.
Noncurante del dolore ai polsi, e delle gambe intorpidite, proseguo quest'incessante redazione, nelle restanti ore notturne (sottratte al sonno) che riesco a dedicargli.
La rivista chiuderà il numero entro la fine del mese, la segretaria di redazione ha 20 giorni di prognosi per uno stupido incidente, una banale scivolata per le scale, e ci siamo trovati io e il caporedattore a dover fare gli straordinari.
Come sempre le cose si danno appuntamento, perché questi giorni sono deicisivi del mio futuro, e la mia tesi sperimentale (che contesta parzialmente tre anni di studi) prende faticosamente forma, anche se sto rispettando la tabella di marcia.
Tutto scorre così veloce, quasi fuori controllo, lasciando trapelare la parte più istintiva di me stesso, rendendomi un po' cinico e stronzo.
Ma forse è solo un meccanismo di difesa, e se ci sarà da fare il botto lo farò da solo, sperando che sia rimasto qualche amico per raccogliere i cocci con me.
Can anybody fly this thing?
 
posted by Stefano at 18:36 | Permalink | 1 comments
17 ottobre, 2006
Looking Through a Glass Onion
Ebbene sì, sono tornato. Con il faccione alla Jack Torrance mi riaffaccio su queste lande desolate a raccogliere noia di chi mi legge, per raccontare un altro week-end in cantina, la mitica cantina dei cugini bolognesi.
Luogo di felice perdizione, dove le sbronze si sono susseguite negli anni passati in altrettante feste distruttive e assolutamente indimenticabili.
Loro, così figli dei fiori da creare imbarazzo, hanno avuto il coraggio di proseguire questa lunga tradizione (iniziata dai miei zii), suonando dal vivo scassatissime cover dei Beatles e raccontandoci di "Strawberry Fields", "Yesterday" e dell'indimenticabile "Norwegian Wood". A loro devo un'amore viscerale verso questa musica un po' matusa, così sognatrice e lontana dal mercato, il commercio, il jet-set. Anche se loro, i Beatles, sono stati risucchiati proprio dal jet-set, ma se facevano dischi era prima di tutto per loro stessi, non per pressioni di produttori a caccia di soldi da far spendere a meno impegnate mogli ed amanti.
Voglio dire che "ormai" il tempo delle fancazziste feste di mercoledì sono finiti da un pezzo, e tante vecchie conoscenze -e mi si ricordano tutti!- ormai sono mezze accasate, laureate, impegnate vorticosamente a timbrare il cartellino ogni santo giorno. Spendendo parole nostalgiche e occhi lucidi per quando ci si ubriacava senza pensare ad altro che al bicchiere pieno, molestando ragazze felici di essere molestate e sotto mischioni di hashish e vari tipi di alcolici si suonava, si cantava, si parlava dell'esistenza e di tutto, tranne i problemi della vita.
Un po' perché non c'erano, un po' perché non ci interessava.
Mi ricordo come fosse ieri una sera di Dicembre, in cui ero finito lì non so con quale scusa, probabilmente per fuggire da una delle mie ex, e faceva un freddo dell'anima.
Uscimmo di casa a caccia di pub che già scendeva qualche fiocco di neve, ma eravamo così impegnati a fare casino che non ce ne accorgemmo.
Qualche ora dopo, ancora più ebbri di alcol e di vita, tutto aveva cambiato colore, i lampioni erano più gialli, le macchine e le strade bianchissime. E qualche metro più in là, dietro Piazza Maggiore, dai dormitori Erasmus erano scesi decine di studenti, intenti a tirarsi palle di neve. E anche noi ci unimmo, scemi e ubriachi quasi da sentirci male. Ricordo di aver riso talmente tanto che mi faceva male la mascella, subito davanti alle orecchie. E la neve che si era infilata fin nelle mutande.
Ricorderò per sempre anche quella volta in cui la band degli Ashley al completo era impegnata a suonare uno dei concerti più belli mai fatti, rigorosamente cover vecchie di almeno trent'anni, e io impegnatissimo a "limonarmi" (come dicono loro) la donna del bassista davanti ai suoi occhi. Lui impassibile continuò a suonare, finì il concerto, la prese a schiaffi davanti a tutti e se ne andò. L'unica cosa che mi ha salvato da morte certa è che me l'hanno spiegato soltanto dopo. E loro che ancora ce lo prendono per il culo.
Lui che invece aveva capito tutto, perché le donne cambiano, l'arte e l'intensità di quel momento musicale invece no. E senza il suo basso il concerto si sarebbe fermato, avremmo smesso tutti di baciarci e l'incantesimo si sarebbe rotto. Un vero figlio dei fiori.
Spero enormemente che questa non sarà l'ultima festa in cantina, ma purtroppo credo che ci sarà posto solo per qualche rimpatriata, in cui finiremo come queste righe, a raccontarci e ricordare le malefatte compiute in quell'angusta cripta addobbata a festa, grande quanto un piccolo locale, tappezzata di locandine vecchie almeno vent'anni e intrise di un amore stupido per la vita, così disperato e vero da far dimenticare ogni singolo problema esistenziale.
E ancora una volta, la Domenica all'ora di pranzo, mi sono svegliato con la testa che girava, mi sono rattoppato alla meglio con una doccia e, arruffatissimo, mi sono seduto a tavola con tutto il resto del parentame, proponendo a fatica aneddoti della vita romana, dei miei parenti, del mio futuro futuribile.
Poi il sole -non so perché c'è sempre stato, non ricordo una giornata post-festa senza di lui- che da fuori ti chiama per una passeggiata ai Giardini Margherita, semplicemente per sdraiarti al sole, e chiudendo gli occhi continuare a viaggiare con la testa. Che gira vorticosamente cercando di ricordare quanto accaduto la sera prima. E lì ci trovavi tutti gli altri, in meditazione silenziosa a smaltire la sbornia o a raccontare com'era finita poi con "quella".

Poi di nuovo in macchina, per l'ennesimo rientro di malavoglia.
E ancora ricordi che ti frullano nella testa, che mi hanno fatto capire quanto sono intriso di questa Bologna un po' bohème, che non smetterò mai d'amare.
Come le "lei" che vi ho incontrato e che non dimenticherò mai.
 
posted by Stefano at 01:50 | Permalink | 0 comments
13 ottobre, 2006
...notti inquiete
Quant'è strana la vita.
O meglio, quanto sono strani i momenti che si susseguono nell'intense giornate quotidiane.
Qualche tempo fa mi lamentavo della routine, di come ammazzasse il senso del tempo. Che ti fa svegliare una mattina con qualche acciacco in più, e hai perso il conto dei lustri già da un po'.
Alla fine credo di aver scoperto che gli "attimi" trovano posto nei nostri ricordi quando c'è qualcosa che li rende tali. E giusto ieri mio cugino bolognese si è laureato in medicina, 110 e lode. Triste tradizione familiare di cervelli pregiati, che hanno messo la firma sotto grandi cose, accompagnate dalla sociopatia che -molto probabilmente- è congenita.
Uno scossone che con un colpo di spugna ha ripulito la quotidianità, e ha fissato un altro momento in questo 2006 che sta raccogliendo sempre più pietre miliari nella mia (e altrui) vita.
E ti ritrovi a notte fonda, a riflettere su questi momenti. Se quell'autoanestesia che cerchi di trovare per sopravvivere non cancelli, o faccia vivere questi momenti come inebetiti, passivi alla vita e dimetichi che le redini sono nelle nostre mani.
Una sensazione che rincontrare vecchie infatuazioni, che avevi archiviato con troppa fretta, ti siano scivolate tra le mani tra una corsa e l'altra, badando talmente tanto alla forma (del luogo, del tempo, del vestito, del pasto misto) da farti perdere la sostanza di uno sguardo, una parola, una frase che ti accarezza un volto raggelato e insensibile. E che cade nel vuoto.
Notti in cui inquietamente ti chiedi per quanto ancora puoi procedere senza guardare, privo di una guida o una stella polare, con il tempo in tempesta che ti sbatte contro impedendo di guardare oltre i tuoi piedi.
È così difficile trovare il coraggio di alzare gli occhi, affrontare a viso aperto le avversità della vita sapendo che sarà un bagno di sangue. Che forse certe ferite non si chiuderanno mai. E che forse nel momento del bisogno le persone di cui ti fidi si tireranno indietro, lasciandoti in ginocchio, sospeso tra una sconfitta e una mezza speranza di rialzarti con le tue forze.
E le notti, un po' alcoliche, un po' sole, ti fanno temere di avere in mano soltanto massicce dosi di amarezza che, incapaci di trasformarle in odio, ti porti dentro per interminabili giorni. E riesci a dimenticarle solo quando hai talmente tanto da fare, che fai fatica a riconoscerti nello specchio. Un volto lì, gli cresce la barba, anche i capelli. A volte li tagli, li levi. Ma non sai perché... forse solo perché ti hanno insegnato a fare così, pura abitudine.

Dopo un po' i muscoli del collo mollano la presa. Le mascelle anche. Gli occhi cominciano a stare chiusi da soli e finalmente sopraggiunge il sonno, giusto meritato e atteso intervallo, sapendo che riaprendoli l'unica speranza di tirare avanti sarà pensare al domani, quando la tempesta passerà.
Peccato che non passerà mai, e un cervello pregiato non basterà a capire dove andare.
 
posted by Stefano at 02:53 | Permalink | 0 comments
10 ottobre, 2006
Tutto in... un SMS
Giusto oggi riflettevo sulla stranezza del mondo, e di come "viviamo" la tecnologia.
È recente la notizia che il volto umano sulla superficie di Marte sia stato in realtà frutto di fantasia e giochi di luce, vittima di un istinto primordiale che ci fa cercare "un volto" ogni volta troviamo una forma non facilmente distinguibile.
E ricordo con notevole suggestione un numero di Focus che raccoglieva gli oggetti più impensabili, fotografati in modo tale da farci ricordare uno stilizzatissimo volto dalle più pittoresche espressioni. Anche una pubblicità Telecom ha cavalcato quest'onda di "ricerca del volto amico", fotografando facciate di palazzi e villini dai volti improbabilmente umani.
E quello che mi sono accorto di vivere -lo so alla veneranda età di 27 anni suona un po' da tardoni- è come traspare un volto, un tono di voce, a volte un'espressione da una semplice sequenza di parole, accentuate dall'uso particolare (ogn'uno ha un suo tocco) della punteggiatura.
Succedeva ai nostri nonni con le lettere, metafora svelata senza pudore in film e cartoni animati (mitiche le lettere scritte a Lady Oscar con la voce del mittente in sottofondo), i quali leggendo appassionate righe narrative riascoltavano la voce di chi scriveva, con flessioni, tremolii e pause date.. da semplici puntini virgole o altri segnetti che costituiscono la punteggiatura.
La storia si ripete quotidianamente con MSN, che arricchito di "emoticon" riesce a stravolgere il senso delle frasi e farci sorridere non per la faccina in sè, ma per il volto immaginario del nostro interlocutore, che vediamo proiettarsi virtualmente sullo schermo.
Anche un normalissimo messaggio sul cellulare, "vulgarmente" chimato SMS, ripercorre e recita nella nostra testa un insieme di espressioni, toni di voce, gestualità del corpo che ricordiamo scorrendo le parole che lo compongono. Un esclamativo di troppo, una parola che usiamo sempre trasmette a chilometri e ore di distanza un pensiero, una proiezione di noi stessi, astrattamente intenti a guardare negli occhi il destinatario, aiutandolo a comprendere quello che stiamo dicendo.
Trovo che questa proiezione sia molto interessante, e raccolga l'essenza del "me" che possediamo del nostro interlocutore.
Insomma rispolverando Pirandello, ogni volta che inviamo un SMS torna in vita uno dei "centomila" che proiettiamo quotidianamente.

E se qualcuno avesse la capacità e l'intenzione di raccontarlo senza condizionamenti, vedremmo uno dei "centomila" ritratti che ci appartengono. Ammesso che poi conoscerlo sia bello quanto il fenomeno in sè.
 
posted by Stefano at 02:17 | Permalink | 2 comments