Momento acustico.
Sulle vibranti note dei King of Convenience, così familiari e amiche in queste rapide giornate invernali, spese tra un tasto e l'altro della mia tastiera che macina tesi e articoli.
Fuori il sole è un po' falso, ti fa credere che faccia caldo. Ma non è così, anzi le mattine che affronto tra casa e redazione sono tutt'altro che tiepide e morbide sul viso.
Mi fanno tornare a quando, solo qualche mese fa, mi alzavo quelle rare mattine primaverili per andare a fare un esame, riempire una casella sotto l'altra. Nome dell'esame, data, voto firma. Avanti il prossimo. E un sole così morbido, che ti aspettava fin quasi l'ora di cena, e non l'ho mai deluso. Fatto l'esame potevo anche concedermi qualche ora a non dover pensare ad altro che un cielo blu e le nuvole bianche, no?
Insomma l'inverno non è la mia stagione preferita, e l'ultimo passato in solitudine... beh risale a due anni fa. Ma era diverso, c'era l'università, gli amici, la voglia di volare lassù ma senza guardare lontano.
Ultimamente faccio fatica a sopportarle queste mattine invernali. Così piene di vuoti impegni, tutti così privi di significato. Di un motivo reale per farli.
Tanti devo, troppi pochi voglio. Sul lavoro. E fuori.
Ma sì diciamolo: a lavoro va molto bene, è inutile nascondersi dietro a un dito. Fare articoli sulle macchine mi viene facile, le parole scorrono leggere, e in cinquanta righe ho raccontato il volante che ho avuto tra le mani, i pedali sotto i piedi. Mi hanno anche rinnovato il contratto, passerò altri tre mesi a guidare macchine per lavoro, ogni settimana una diversa. Il sogno di tutti i miei coetanei.
Tranne me, forse. Lo prendo semplicemente come un lavoro, e forse questo è il segreto del mio successo. Ma successo per chi?
Per gli altri che sono contenti per me, perché probabilmente se pulissi cessi dalla mattina alla sera la penserei ugualmente. È sempre, e soltanto, un lavoro.
Sono sfaticato? Chi mi conosce sa bene che non è così. Presentarsi alla seduta di laurea con 104, una tesi sperimentale finita in 15 giorni (ma preparata in tre mesi), una media superiore al 28 e tutti gli esami fatti senza essere minimamente fuoricorso significa che mi sono dato da fare. In mezzo ci sono tre riviste, qualche sito. E abbastanza soldi per pagarmi gli studi (università privata, la retta non te la regalano) e la mia fiammante CBR600RR.
Una sera, per pura curiosità, mi sono fermato a contare quanto guadagnerei se scrivessi articoli a tempo pieno (e non quattro giorni al mese). Probabilmente mi ci pagherei molto di più che una laurea e una moto, ma dopotutto... non mi interessa veramente.
Sì forse sono sfaticato. O forse dei soldi non me ne frega un cazzo, infatti sono squattrinato e ho decine di crediti per lavoro con varia gente.
Ma non voglio parlare del fatto che sono sfaticato, delle solite cazzate sul lavoro, dei soldi (che servono sempre, purtroppo).
O del mio sofferente rapporto con la scrittura. Che odio e amo allo stesso tempo, un amore malato, che si esprime al meglio quando sto male. Più sto male, meglio scrivo. E più la gente mi fa i complimenti, specialmente sul lavoro. E troppo spesso dimentico di ringraziare, passando per l'ennesimo sociopatico pieno di sé.
Giovedì scorso ho finito la tesi, e con tutti i fiocchetti di rito dovrebbe superare le 120 pagine. Salto l'oggetto della mia tesi (tecnico, palloso e privo di significati artistici, percui inutile), e a fatica prendo le redini del discorso.
Forse è l'ora, forse è questa solida stanchezza di stare davanti al monitor.
È finita. E contrariamente ai bambini che corrono il 10 giugno fuori da scuola, quando la campanella suona l'inizio delle vacanze, anziché pensare agli amici del mare, mi guardo indietro.
E scopro perché ho rifiutato offerte di lavoro faraoniche per un ragazzino di 24 anni e irripetibili per uno studentello di 25. Il motivo è la solitudine.
Che ti insegue come un'ombra, ma finché hai nuova gente amica con cui parlare sei salvo. Anziché andare a Milano, fare il giornalista a tempo pieno. Perdere di vista il mio piccolo mondo antico, fatto di bar, amici, discoteche e amori nati e morti tra un tramonto e l'altro.
Ho studiato, ho fatto esami, ho combattuto con lo stress per due motivi: avere un luogo di miei coetanei con cui scherzare, fare finta di stare al liceo, giocare ad essere adulti in erba; e poi fare l'adulto quasi vero, lavorando, rispettando le scadenze e allevando le mie abilità professionali.
Oggi tutto questo è servito a qualcosa, o forse no.
È finita l'università, sono finiti i giochi, mi sono fatto aspettare ma non ho più scuse, da domattina saremo io e lei. La solitudine, che mi porto nello zaino tutte le mattine che vado in redazione a lavorare, e mi fa vedere quanto la vita d'azienda sia una gabbia di esseri soli, che anziché vivere nella calda e rassicurante socialità di un ateneo, si ingobbiscono sulle loro scrivanie, si ancorano grettamente al posto di lavoro conquistato, e tengono la vita vera fuori da tornelli e pause pranzo.
Solo che loro hanno una donna, una casa, dei figli e a volte un cane e una suocera da tenere a bada.
Non è invidia, è timore di finire come loro.
So che non accadrà, che fuggirò in tempo, e che ci saranno gli amici a salvarmi da tutto questo. Ma chi passerebbe otto ore al giorno in gabbia, attendendo le 18 per scappare e prendersi una boccata di traffico, per poi timbrare il cartellino a casa?
Sì, forse il lavoro d'ufficio non fa per me, ma improvvisamente ho scoperto che casa mia non è qui, e la mia vita non è tra il pianerottolo e il mio letto.
È tra i miei coetanei, a fare casino, a scherzare sul prossimo esame. A sognare cosa farò da grande, a sperare che due occhi verdi si soffermino quell'istante in più per accorgersi di me. E invece è finita, la vita non può più aspettare.
E se crescere significa rinunciare a qualcosa, io so già cosa lascerò tra le mura della Lumsa.
E chissà quel giorno diventerò un grande scrittore.
Homesick, Cause I no longer know, What home is.