Are you gonna be the one who saves me?
29 settembre, 2006
Un Tempo Piccolo
Mi illuderei se sperassi di scrivere questo blog solo per me, o che fosse semplicemente compreso. E vorrei pensare, sbagliandomi, di non provocare alcun senso di compassione leggendo queste righe, perché non l'accetterei, visto che riguarda quelle parti di me associabili al colore dei capelli o alla tonalità della voce. Ci si nasce, non cambiano.
La compassione viene dalla sensibilità.
Ecco vorrei parlare di sensiblità, un po' della mia, un po' di quella di tutti.
Forse è proprio la sensibilità che misura quanto siamo parte, e non siamo parte, di questo mondo. E un po' quanto siamo suscettibili delle variazioni, di avvenimenti che non controlliamo, ma che inevitabilmente pesano sulla bilancia.
Ecco ogn'uno ha la sua bilancia di sensibilità.
E penso che chi ne ha tanta, a volte troppa, sia includibile in quella ristretta cerchia di "artisti". Artisti nel saper vivere la vita quotidiana, attori nati, capaci di portare mille maschere per nascondere ogni volta l'impatto del più piccolo degli eventi.
E così bravi a portare con leggerezza quel marchio, quel peso, che inarca le spalle, abbassa le sopracciglia, allunga infinitamente un battito di ciglia, per la semplice paura di dover riaprire gli occhi e continuare a vedere.
Un segno che porti dentro, esternamente non si vede di certo, o almeno non allo specchio. Perché gli altri, anche se poco sensibili, lo vedono benissimo, nitidamente in ogni gesto. Da come versi l'acqua a tavola, a come volgi lo sguardo verso chi ti sta parlando. Uno sguardo che fatica ad essere sicuro, una voce che trema per paura di essere scoperta, di tradire l'esistenza di questo peso che dopotutto è parte del nostro essere.
Paura di essere compatiti, di essere protetti, quando invece il vero dolore non proviene dagli altri. Non viene da un "no" perentorio, o una semplice sconfitta sul luogo di lavoro. Viene dal colore e dal sapore della vita di ogni giorno.
Perché in realtà la vita ci ha educati fin da piccoli ad affrontare con disperato vigore l'avversità di ogni giorno che gli occhi, le orecchie, il cuore ci fanno vivere. L'unica difesa è imparare a dimenticare. Chi è molto sensibile dimentica presto il dolore dell'evento accaduto, perché in realtà l'unica cosa che cambia è l'evento. Il dolore, in un modo o nell'altro, è sempre presente. Una sorta di fallimentare mitridatismo nella quotidianità, che però non giunge mai al suo compimento. Il veleno non cessa mai di mischiarsi al sangue, e si cammina insicuri per la strada, sospesi sul sottile filo della farsa. Quella contro se stessi.
Che ci alziamo la mattina fingendo di stare bene, che se versiamo una lacrima è solo per errore, che se ricordiamo qualcosa è solo perché la razionalità tiene faticosamente sotto controllo le decine di ruoli quotidiani che interpretiamo tra una giornata e l'altra, e ci impone di dover consegnare alla nostra posterità quei momenti particolarmente -razionalmente- importanti.
Una costante tinta amara ci accompagna, un velo di triste consapevolezza che ogni cosa ci accada intorno non cadrà mai nella tolleranza, e accenderà per l'ennesima volta il cuore. Che per l'ennesima volta metterà a dura prova la nostra voce, il nostro sguardo, la fermezza delle mani.
Gli unici momenti di pace sono quelli in cui la solitudine, l'individualità, ci permettono finalmente di sdraiarci sul letto, chiudere gli occhi, e abbandonare finalmente il corpo alla sola sofferenza. Senza ruoli da interpretare, sguardi da nascondere. Sono momenti che ti impediscono di alzare un braccio, riaprire gli occhi. Che interrompono il respiro, ti stritolano dentro.
Intorpidito e solo trovi il tuo momento di sottile sollievo, in una dimensione dove nessuno potrà mai entrare. Un luogo dove sei soltanto tu e il tuo dolore, il resto è lontano, isolato. Perché il motivo che l'ha provocato è già passato in secondo piano, è quasi scomparso. Dopotutto è una semplice miccia, che finisce travolta e polverizzata dall'esplosione silenziosa del sentimento.
Del disagio.
Tante volte ci si guarda nello specchio, e ci si chiede perché ostinarsi a guardare ancora il bello del mondo, della vita. Perché continuare a vedere ed ascoltare.
Ma è così tristemente bello innamorarsi in pochi istanti, spiccare il volo in pochi attimi, illudendosi per l'ennesima volta che sarà un volo bellissimo, a due. Giusto il tempo di voltarsi un attimo, distrarsi, e ti scopri ad aver nuovamente rivelato la parte di te che più nascondi. Che meno vorresti rivelare. E che ti porta al punto di partenza.
Compassione, menzogna a "fin di bene", mezze frasi. Solitudine.
E di nuovo ci si guarda dentro, si dimentica la miccia, ma il resto è lì che ti aspetta, che invade nuovamente la testa. E ti fa nascondere di nuovo il volto, lo sguardo, le mani.
Torni ancora una volta a parlare con una voce non tua, a guardare con occhi non tuoi. Perché quelli veri piangerebbero senza lacrime, la voce spezzerebbe ogni parola. E non sei te. In mezzo agli amici, a tavola con la famiglia. In giro in macchina o facendo la fila alle Poste. Non ci sei tu, c'è un corpo telecomandato -a volte malamente- che dispensa frasi fatte, sorrisi finti, strette di mano che ti fanno dimenticare il nome qualche istante dopo.
Perché non sei lì. Sei su un letto immaginario, gli occhi chiusi, le braccia abbandonate alla sofferenza.
L'unica cosa che rimane è l'amore, quello che viene ricambiato i primi attimi con chi ci piace. E la speranza che duri più di qualche istante.
E poi l'istante dopo tutto torna come prima, fermo al punto di partenza, con la consapevolezza che, anche questa volta, la miccia l'abbiamo accesa. Manca solo il botto.
E in realtà non dimenticheremo proprio nulla, perché ci sarà sempre una cicatrice a ricordarci cos'è accaduto.
Ci innamoriamo. E poi soffriamo. In un tempo piccolo.
 
posted by Stefano at 18:12 | Permalink | 3 comments
22 settembre, 2006
Sondaggio
MA da 1 a 10, quanto so gaggio?

So Gaggio!
 
posted by Stefano at 01:51 | Permalink | 1 comments
17 settembre, 2006
Gas panic?
In questi grigi pomeriggi -e serate- preautunnali è inevitabile stare fermi in un angolo, mani in mano, a lasciarsi scappare qualche neurone di troppo, e riflettere su cose che generalmente sono sostituite da casini di vita quotidiana, dal lavoro allo studio ad ogni genere di svago concepibile.
Oggi ho provato ripetutamente a produrre qualcosa, articoli ovviamente, perché la settimana prossima sarà un interminabile bagno di sangue con due riviste che si rincorrono per la chiusura, e io in mezzo che come sempre mi riduco all'ultimo istante.
Non ci sono riuscito granché, a parte qualche ricerchina e un po' di "fumo", ma il grosso deve ancora comparire su questo schermo, anche se non so proprio come.
Da piccolo ero molto bravo ad inventarmi inutili storie, a volte paranoie, un po' per ingannare il tempo (ero piuttosto solo, in cattiva compagnia di me stesso), forse perché ero un sociopatico in erba. Odiavo gran parte delle cose animate e inanimate che mi passavano davanti.
Tra le più bizzarre c'era una latente convinzione che avessi una forma di malformazione, secondo la quale la gente comunicava anche senza parlare (trasmettendosi messaggi con il pensiero), e andando in giro sentiva tutti i pensieri della gente intorno, compresi i miei. Ma io per qualche strano scherzo del destino non ero capace di ascoltare quello che i loro pensieri mi stavano dicendo, quindi non capivo -non sentivo le loro mute domande- e finivo per essere isolato dagli altri.
Però era divertente mandare a fanculo tutti in silenzio, per vedere se avevano almeno il coraggio di voltarsi e guardare verso di me, e il bello è che a volte accadeva. Con la razionalità di oggi, è scontato che un nanetto incazzato nero, che ti guarda torvo, accende quantomeno una certa curiosità e ti fa voltare per guardare meglio. Se poveracci sapessero quante gliene ho dette di sicuro non mi avrebbero sorriso.
Abbandonato il divanetto di pelle, oggi il tempo piuttosto grigio e la quasi sbronza di ieri non hanno aiutato il mio io a ritrovare il suo tassello nel mondo. Il primo problema è stata la sveglia, o meglio come sono caduto dal letto: classico sogno tachicardico in cui stava succedendo qualcosa di strano (ma non ricordo proprio cosa fosse, niente di negativo dottore), e ti svegli con il cuore a mille e quasi il fiatone. Con il pranzo in tavola e una faccia da quarta ripresa pesi massimi in TV.
Da lì la voglia di mettere in moto i polpastrelli (classica scena del Cipolla "chi se la sente?") ha fatto una brutta fine, ma di contro il disagio con l'ambiente circostante ti fa frullare per la testa domande piuttosto insolite.
E sai che i mostri, che hai battuto in susseguenti battaglie perse nel passato, non si arrendono mai. E l'odio torna a farsi vivo. Un odio che non sai indirizzare, che non ha un bersaglio su cui sfogare il disagio, il grigiore, le nuvole che da fuori sembra ti siano entrate dentro, e tra tuoni e fulmini sarebbero in grado di farti tirare giù un palazzo a spallate.
Che ho scritto a fare questo blog? Forse solo per dire che anche quando tutto va per il verso giusto, quando hai un millesimo dei problemi di chiunque altro, quando non puoi davvero chiedere nulla di meglio, c'è sempre quell'odio, quella rabbia dentro che ti vorrebbe far gridare a squarciagola quanto tutto sia una merda.
E riflettendoci scopri che la merda sei te, che non sai guardarti. E che dovresti scoprire quanto sarebbe infinitamente più giusto essere soddisfatti e dire che la merda è solo nella tua testa.
Ma forse è questa voglia di spaccare tutto che ti fa trovare la forza di andare oltre, di non fermarti mai.

Better get on your knees and pray
panic is (not yet) on the way...
 
posted by Stefano at 02:23 | Permalink | 2 comments
15 settembre, 2006
Notte prima degli esami
No, non l'ho visto. E so a malapena di cosa parla. Ah non l'ho neanche letto.
Però c'è una canzone, molto bella, di uno che sentiamo cantare all'Olimpico ogni volta che la Roma vince. La canzone che mi frullava in testa ieri mattina, quando mi sono alzato di buon'ora (erano le sette!)(per il secondo giorno consecutivo!!) e sono andato all'università dove mi aspettava l'ennesimo esame. Motorino, camicetta, occhio felpato sono arrivato con 3 minuti di ritardo, e avevano già fatto l'appello.
La prima volta in vita mia che vedo cominciare un esame in orario, quindi mi alzo e prostratrissimo chiedo se il prof mi aveva chiamato perché ero arrivato in ritardo.
Ero il primo, quindi ancora una volta posso dire di essere stato fortunato: è clinicamente provato che i primi sono sempre gli ultimi, e raramente si parte con voti alti. Genuflessione, non ho baciato le mani, e sono tornato al mio posto nell'attesa della "chiamata".
Perché tutta questa prosopopea per raccontare il solito viavai dell'esame? Beh... era l'ultimo! Dalle 9 e 15 di ieri mattina sono ufficialmente laureando, da adesso in poi devo preoccuparmi di dare alla tesi un volto utile al mio futuro e alla mia laurea. E andando a rivedere il mio vecchio blog, il mitico Zibaldone Abbradipato quasi mi commuovo nel leggere la mia apprensione, 24 mesi fa, prima di uno degli esami più difficili che ho affrontato nel triennio.
E ho viaggiato tutta la mattinata sulla controtendenza della mia situazione: le scuole hanno riaperto, un po' tutti tornano a fare i conti con la propria cultura e i propri studi (anche le pupe coi secchioni)... e io invece ho finito, e dovrò "solo" mettermi a scrivere per me stesso e non per i miei caporedattori.

Abbandono velocemente questo momento di eterea sospensione, per ricordare qui che questo weekend c'era l'intenzione, con i miei colleghi fancazzari, di andare a Mirabilandia, per farsi un paio di montagne russe, e altrettante pellette per ravvivare un po' la deriva autunnale, ma ancora una volta sono i coperchi a mancare! Da un lato mi ero proposto di organizzare tutto io, e c'ero riuscito, con la promozione (non a scuola, la promozione commerciale) avevo infiocchettato due giorni a 100 euro all inclusive 45% di quota anticipata obbligatoria, ma complice l'improvvisa impennata di lavoro (ormai abito in redazione) non ho avuto tempo di fare la mia dose di PR e mettere insieme gli altri sette sventurati (quattro uomini e quattro donne) che avrebbero condiviso con me questa "gita di fine anno". Siamo di meno e -tanto pè cambià- quasi tutti piselli.
L'unica irriducibile (quindi io sarei apposto) mi chiama ogni giorno chiedendo sviluppi, ma il capotribù (cioè io) ha a cuore l'animo dei suoi guerrieri, quindi ho rinviato tutto sperando in una più rosea prospettiva femminile. Che -sono fiducioso- non tarderà a farsi vedere.

Altra nota felice ma dolente che mi tocca affrontare (questa lo è davvero) è la situazione lavorativa. L'altro ieri ho portato una Peugeot 307 a farsi fare un po' di foto per la rivista (marinando la giornata di ripasso e rischiando una chiusura sottotono della mia stagione universitaria), per lasciare il mio direttore -le foto doveva farle fare lui- a correggere i pezzi che gli avevo sottoposto qualche giorno fa per la pubblicazione. Che bella sorpresa rileggerlo impaginato con le sue correzioni: pareva una partita di Scarabeo dopo una scossa settimo grado della scala Richter. Ripetizioni, virgole fuori posto, periodi scombussolati. Volevo quasi piangere, perché lui è tornato a casa (non è di Roma) e io devo aspettare lunedì per fare le mie -dovute- rimostranze. Nel frattempo mi si accappona la pelle al pensiero che possa uscire una rivista con il mio articolo scritto in quel modo, stento a riconoscere il mio stile, e soprattutto pare che ho la terza media.
E se mi legge qui sono morto.

Ma non è il caso di disperare, godiamoci la quiete dopo la tempesta di queste ore, sperando che invece non sia l'occhio del ciclone.
Buon week-end!

P.S.
ho preso 30 e lode...
 
posted by Stefano at 14:24 | Permalink | 2 comments