Mi illuderei se sperassi di scrivere questo blog solo per me, o che fosse semplicemente compreso. E vorrei pensare, sbagliandomi, di non provocare alcun senso di compassione leggendo queste righe, perché non l'accetterei, visto che riguarda quelle parti di me associabili al colore dei capelli o alla tonalità della voce. Ci si nasce, non cambiano.
La compassione viene dalla sensibilità.
Ecco vorrei parlare di sensiblità, un po' della mia, un po' di quella di tutti.
Forse è proprio la sensibilità che misura quanto siamo parte, e non siamo parte, di questo mondo. E un po' quanto siamo suscettibili delle variazioni, di avvenimenti che non controlliamo, ma che inevitabilmente pesano sulla bilancia.
Ecco ogn'uno ha la sua bilancia di sensibilità.
E penso che chi ne ha tanta, a volte troppa, sia includibile in quella ristretta cerchia di "artisti". Artisti nel saper vivere la vita quotidiana, attori nati, capaci di portare mille maschere per nascondere ogni volta l'impatto del più piccolo degli eventi.
E così bravi a portare con leggerezza quel marchio, quel peso, che inarca le spalle, abbassa le sopracciglia, allunga infinitamente un battito di ciglia, per la semplice paura di dover riaprire gli occhi e continuare a vedere.
Un segno che porti dentro, esternamente non si vede di certo, o almeno non allo specchio. Perché gli altri, anche se poco sensibili, lo vedono benissimo, nitidamente in ogni gesto. Da come versi l'acqua a tavola, a come volgi lo sguardo verso chi ti sta parlando. Uno sguardo che fatica ad essere sicuro, una voce che trema per paura di essere scoperta, di tradire l'esistenza di questo peso che dopotutto è parte del nostro essere.
Paura di essere compatiti, di essere protetti, quando invece il vero dolore non proviene dagli altri. Non viene da un "no" perentorio, o una semplice sconfitta sul luogo di lavoro. Viene dal colore e dal sapore della vita di ogni giorno.
Perché in realtà la vita ci ha educati fin da piccoli ad affrontare con disperato vigore l'avversità di ogni giorno che gli occhi, le orecchie, il cuore ci fanno vivere. L'unica difesa è imparare a dimenticare. Chi è molto sensibile dimentica presto il dolore dell'evento accaduto, perché in realtà l'unica cosa che cambia è l'evento. Il dolore, in un modo o nell'altro, è sempre presente. Una sorta di fallimentare mitridatismo nella quotidianità, che però non giunge mai al suo compimento. Il veleno non cessa mai di mischiarsi al sangue, e si cammina insicuri per la strada, sospesi sul sottile filo della farsa. Quella contro se stessi.
Che ci alziamo la mattina fingendo di stare bene, che se versiamo una lacrima è solo per errore, che se ricordiamo qualcosa è solo perché la razionalità tiene faticosamente sotto controllo le decine di ruoli quotidiani che interpretiamo tra una giornata e l'altra, e ci impone di dover consegnare alla nostra posterità quei momenti particolarmente -razionalmente- importanti.
Una costante tinta amara ci accompagna, un velo di triste consapevolezza che ogni cosa ci accada intorno non cadrà mai nella tolleranza, e accenderà per l'ennesima volta il cuore. Che per l'ennesima volta metterà a dura prova la nostra voce, il nostro sguardo, la fermezza delle mani.
Gli unici momenti di pace sono quelli in cui la solitudine, l'individualità, ci permettono finalmente di sdraiarci sul letto, chiudere gli occhi, e abbandonare finalmente il corpo alla sola sofferenza. Senza ruoli da interpretare, sguardi da nascondere. Sono momenti che ti impediscono di alzare un braccio, riaprire gli occhi. Che interrompono il respiro, ti stritolano dentro.
Intorpidito e solo trovi il tuo momento di sottile sollievo, in una dimensione dove nessuno potrà mai entrare. Un luogo dove sei soltanto tu e il tuo dolore, il resto è lontano, isolato. Perché il motivo che l'ha provocato è già passato in secondo piano, è quasi scomparso. Dopotutto è una semplice miccia, che finisce travolta e polverizzata dall'esplosione silenziosa del sentimento.
Del disagio.
Tante volte ci si guarda nello specchio, e ci si chiede perché ostinarsi a guardare ancora il bello del mondo, della vita. Perché continuare a vedere ed ascoltare.
Ma è così tristemente bello innamorarsi in pochi istanti, spiccare il volo in pochi attimi, illudendosi per l'ennesima volta che sarà un volo bellissimo, a due. Giusto il tempo di voltarsi un attimo, distrarsi, e ti scopri ad aver nuovamente rivelato la parte di te che più nascondi. Che meno vorresti rivelare. E che ti porta al punto di partenza.
Compassione, menzogna a "fin di bene", mezze frasi. Solitudine.
E di nuovo ci si guarda dentro, si dimentica la miccia, ma il resto è lì che ti aspetta, che invade nuovamente la testa. E ti fa nascondere di nuovo il volto, lo sguardo, le mani.
Torni ancora una volta a parlare con una voce non tua, a guardare con occhi non tuoi. Perché quelli veri piangerebbero senza lacrime, la voce spezzerebbe ogni parola. E non sei te. In mezzo agli amici, a tavola con la famiglia. In giro in macchina o facendo la fila alle Poste. Non ci sei tu, c'è un corpo telecomandato -a volte malamente- che dispensa frasi fatte, sorrisi finti, strette di mano che ti fanno dimenticare il nome qualche istante dopo.
Perché non sei lì. Sei su un letto immaginario, gli occhi chiusi, le braccia abbandonate alla sofferenza.
L'unica cosa che rimane è l'amore, quello che viene ricambiato i primi attimi con chi ci piace. E la speranza che duri più di qualche istante.
E poi l'istante dopo tutto torna come prima, fermo al punto di partenza, con la consapevolezza che, anche questa volta, la miccia l'abbiamo accesa. Manca solo il botto.
E in realtà non dimenticheremo proprio nulla, perché ci sarà sempre una cicatrice a ricordarci cos'è accaduto.
Ci innamoriamo. E poi soffriamo. In un tempo piccolo.