Momento Masterplan.
Dopo "i successi" delle settimane passate (che come in Acquiesce sono un eco di "what's the story"), sono tornato a dover fare i conti con la quotidianità.
O quella che gli amanti del postmodernismo chiamano "routine".
E scopro quanto l'essere umano sia insoddisfatto di quello che ha. Quando lavora troppo, vorrebbe lavorare di meno; quando ha un momento di pace si trova a fare a cazzotti con la noia; quando non ha una donna piange il suo essere solo... e quando cel'ha invidia gli amici single e la tratta male.
Gli antichi romani dicevano "in medio stat virtus", che però alle mie orecchie suona un po' come "chi s'accontenta gode".
E quindi sù il bavero, si affrontano queste gelide giornate, le ultime che ci separano da Dicembre, il mese del Natale, della neve, dei regali, del capodanno... e delle "somme". "Chiuso per inventario" a volte si legge sulle saracinesche dei negozi che, dopo un anno di duro lavoro, vogliono sapere cos'hanno veramente combinato.
Personalmente non chiuderò per inventario, anzi intendo voltarmi indietro solo quando mi sentirò troppo vecchio per guardare avanti. Ciò non toglie che gli psicanalisti vedono i periodi delle feste come i più difficili per chi soffre di depressione, per via dei ricordi che bussano dalle porte del passato.
Ma io non soffro di depressione, e neanche di attacchi di ansia, mi sento semplicemente disilluso dalla realtà di tutti i giorni, e un po' come in Rockin' Chair sento il peso del passato, dei ricordi, che riaffiora quando mi trovo a fissare il mio telefono. Mentre fuori arriva il Natale.
E riemerge quel senso di solitudine con cui quest'ultima settimana ho avuto pieno contatto. Ci ho praticamente sguazzato dentro.
Parlo dell'Art Cafè naturalmente: uno dei locali (dicono) più fighi di Roma, forse uno dei pochi che si salva e che riesce ancora a far "sentire qualcosa" a chi ci mette piede dentro, un qualcosa che a mio parere è un surrogato (alcolico) della vita. C'è un po' di tutto, tra cui ostentazione, recitazione, menefreghismo e autodistruzione.
Si ostenta il proprio modo di vestire e di ballare, di sapersi fare bello tra gli altri, di potersi permettere un tavolo al privè con alcol che scorre a fiumi e belle ragazz(in)e che recitano di venerarti quando invece sono le prime a fregarsene di tutto e tutti, sicure nella loro materiale ed effimera -temporanea- bellezza, frutto di stereotipi sociali e mediatici che ci costringono ad amare donne tirate a lucido come le Ferrari di Via Pinciana.
Il tutto termina nell'autodistruzione, quello che Nietsche ha chiamato nichilismo, ma con fonti e modalità terribilmente ingenue. Ci si ammazza di alcol, si rifiuta di affrontare la vita a viso aperto, ci si scherma dietro mode, aggregazioni, frasi fatte e omologazione. E luoghi come l'Art Cafè vivono grazie a queste patologie sociali, diffuse. Delle vere e proprie epidemie di amorfismo, che sfociano in quel mondo patinato della "bella vita". Che di vita ha ben poco.
Una risposta a questa mia opinione c'è, e conforta il mio timore di essere pazzo: so che è colpa mia. E i pazzi raramente si assumono la responsabilità delle loro visioni distorte. Quindi non sono gli altri ad essere sbagliati e folli, sono io che -in soldoni- rasento quotidianamente l'asocialità e il disadattamento.
Thomas Mann, nel suo (fin troppo) autobiografico Tonio Kroger riesce a liquidare in poco meno di un capoverso quello che voglio dire:
"A un'epoca in cui si potrebbe ragionevolmente pretendere di vivere d'amore e d'accordo con Dio e con il mondo, uno comincia a sentirsi segnato, a rendersi conto d'essere in incomprensibile contrasto con gli altri, coi normali, con la gente ordinaria; sempre più fondo scava l'abisso d'ironia, d'incredulità, d'opposizione, di lucidità, di sensibilità, che lo separa dagli uomini; la solitudine lo inghiotte, e da quel momento non c'è più possibilità d'intesa."
Solo che non sto parlando del presente, questo è un passato che ho già ampiamente interiorizzato, e con cui faccio i conti ogni volta che il sole, da est, ci ricorda che è il mattino di un altro giorno. E senza contare le mattine, ho la certezza che questa "rottura col mondo" l'ho cominciata tanto tempo fa. Non avevo neanche cominciato il liceo.
Chi mi conosce sa che queste non sono le ultime lettere di Jacopo Ortis, e Goethe è lontano anni luce.
Il mio è solo il classico delirio notturno, il classico momento in cui senti il bisogno di aprire la valvola, e sfogare quello che ti sei accumulato dentro.
Anche perché la settimana scorsa non è stata poi così distruttiva: mi sono visto due bellissimi concerti all'Auditorium, con la deliziosissima compagnia di Leila (a proposito di Obi Wan), il primo di Chiara Civello e il secondo di Incognito.
E proprio di quest'ultimo uno dei ricordi che non dimenticherò mai. La sala Sinopoli del nostro autitorium è il classico leccatissimo ambiente per concerti di musica da camera e orchestra sinfonica (forse è un po' piccola), posti a sedere numerati, bocca stretta "buongiorno buonasera", e ogni frase deve cominciare con il "mi scusi".
Beh il nostro caro Incognito ha portato 12 fenomeni del jazz e della black music, ha suonato divinamente e soprattutto ci ha fatto ballare!
Centinaia di persone, verso la fine del concerto, si sono riversate sotto il palco ed hanno cominciato a ballare, cantando, saltando, ridendo.
È lì che ho scoperto perché si va in discoteca: perché si vogliono vivere quei momenti di puro divertimento, in cui la musica ci avvolge e finalmente ci fa sentire vivi e non più soli. Dove si può gridare, ballare, pensare e comunicare che "ci piace" senza essere giudicati.
Posso davvero sperare che vivrò felice e sereno in un mondo senza giudizi e pregiudizi?
Ne dubito fortemente, anche Tonio Kroger mi seguirebbe, sperando di trovarsi bene anche lui lì. E ricomincerei daccapo.
All my life I try to make a better day. It's hard enough being alone.